L’Hôtel du Libre Échange (L’Hotel del Libero Scambio) – articolo di critica teatrale del 1894

Fernandel in L'Hotel del Libero ScambioIl presente articolo è stato pubblicato il 10 dicembre 1894 e poi raccolto nel volume Quarante ans de théâtre (feuilletons dramatiques). L’autore è Francisque Sarcey, la traduzione è mia.

L’Hotel del Libero Scambio è una delle pièces più spassose che si siano mai viste da molti anni a questa parte. La prima sera il successo è stato talmente travolgente che, durante il secondo atto, si è verificato un fenomeno a cui avevo assistito solo una volta in vita mia, il giorno della prima di Le sorprese del divorzio di Alexandre Bisson: le folli risate che hanno colto e scosso l’intera sala erano così rumorose da rendere inudibile qualsiasi parola pronunciata dagli attori sul palcoscenico, e l’atto si è concluso come una pantomima.
Il contenuto della pièce non si contraddistingue per originalità, e il procedimento non è neanche tanto innovativo. Tutto il pubblico presente in sala ha notato quel certo non so che di familiare tra L’Hotel del Libero Scambio e Il signore va a caccia. Si parla sempre di un marito o di una moglie colpevoli, e l’abilità sta tutta nel radunare nello stesso posto, durante il secondo atto, quei personaggi che non dovrebbero incontrarsi e che, fuggendo gli uni dagli altri, si imbattono, disperati, gli uni negli altri.
Ma questa tematica priva di pretese – gettata nel crogiolo di Schopenhauer non ne uscirebbe neanche una goccia di filosofia – si può diversificare all’infinito. La cosa meravigliosa, in Feydeau e Desvallières, è lo straordinario proliferare di invenzioni drammaturgiche; entrambi gli autori possiedono, in questo ambito, una singolare potenza immaginativa, e tale immaginazione è in continuo movimento. In ogni istante, trovano dei dettagli imprevisti sui quali la situazione prende un nuovo sviluppo. Un tempo, Georges Feydeau, quando ancora era un esordiente, si lasciava trasportare dalla “pazza di casa” (riferimento alla fantasia secondo una definizione di Santa Teresa d’Avila, N.d.T.), si abbandonava alla sua verve, perdeva di vista la tematica delle sue pièces e si smarriva in fantasie che finivano per stancare lo spettatore. Sembrava giocare ai propositi interrotti. Adesso, o perché ha veramente appreso il suo mestiere, o perché il suo collaboratore gli rende lo stesso servizio che un tempo l’autore Lausanne rendeva a Duvert, mantenendolo sulla retta via, Feydeau possiede un talento e una sicurezza di procedimento davvero incredibili.
Tutte le fantasie di cui la pièce abbonda, e che sembrano scaturire all’improvviso da uno scossone immaginativo, sono predisposte e convogliate da lontano; stupiscono, certo, ma non spaventano affatto, poiché avremmo potuto prevederle, e quasi ce le aspettavamo. Sono gestite da un geometra infallibile, che ne ha indicato con precisione il punto di partenza e ne ha calcolato la curva. Dal punto di vista tecnico non esiste niente di più stupefacente de L’Hotel del Libero Scambio.

Gina Lollobrigida in Hotel Paradiso

Atto primo

Il signor Paillardin è un architetto professionista. Non pensiate che questa professione gli sia stata attribuita per caso. Nella pièce non vi è un solo dettaglio, per quanto insignificante possa sembrare, che non abbia la sua ragione d’essere e che, in un momento specifico, non serva alla situazione. Il tribunale incarica Paillardin di presentare un rapporto su una camera dell’Hotel del Libero Scambio che si racconta essere abitata dai fantasmi. Il personaggio vi trascorrerà dunque una notte, per accertarsi della cosa. E la signora Paillardin che farà? Resterà sola tutta la notte? È giovane, la signora Paillardin, ed è pure vivace. Oh, beh! il signor Paillardin non se ne preoccupa affatto. Si è sposato solo per godersi il meritato riposo. Ne ha abbastanza delle donne in generale e della sua in particolare; di cui però si fida ciecamente, e che crede troppo fredda e sciocca per arrivare a tradirlo. Ma la signora Paillardin da quell’orecchio non ci sente. Ah! lui la trascura? E allora staremo a vedere: Pinglet è lì apposta.
Pinglet è l’amico di Paillardin. È sposato con una vecchia bisbetica, che lo comanda a bacchetta. Anche lui ne ha abbastanza di sua moglie; ma in quanto alle mogli degli altri, ah! se solo Paillardin non fosse suo amico! Ma come si suol dire: non c’è amicizia che tenga! è così sfortunata la povera piccola signora Paillardin, e così arrabbiata. È in collera con il marito, e bisogna assolutamente che si vendichi! Pinglet si fa dunque avanti.
La signora Pinglet andrà a trascorrere la serata e la notte a casa della sorella malata. L’occasione è propizia; Pinglet porterà la sua nuova conquista a cenare al ristorante, e poi da lì la condurrà… Dove?
In quell’istante, la domestica consegna alla vecchia e austera signora Pinglet la posta del mattino. È lei stessa a spulciarla. Tra le lettere, ne trova una che riporta la dicitura “confidenziale”. È il volantino di un hotel – L’Hotel del Libero Scambio – in cui si promettono ai clienti velocità e discrezione.
Locandina di L'Hotel du Libre Echange“Oh! e proprio a me, la signora Pinglet, spediscono questi obbrobri?”
Getta il volantino a terra. Pinglet ha letto l’indirizzo; la cameriera, su ordine della signora Pinglet, raccoglie i fogli da terra e vediamo che, dopo aver spiegato il volantino, se ne va via pensierosa.
Avete visto? la situazione si prepara; sta cuocendo a fuoco lento e intelligente, la situazione. A quel punto arriva il signor Mathieu. È un avvocato di Valenciennes, a casa del quale i Pinglet sono stati accolti durante un viaggio, e a cui hanno cortesemente detto: “Se mai dovesse passare per Parigi…”. La signora Pinglet fa una smorfia: “Sono cose che si dicono, no?”… Insomma bisogna fare buon viso a cattivo gioco. Ma… sorpresa! Mathieu balbetta in modo spaventoso. Eppure non balbettava quando i Pinglet l’hanno visto a Valenciennes, ma in quel periodo il tempo era bello; Mathieu infatti balbetta solo quando piove:
“La cosa vi creerà dei fastidi, non è vero, avvocato?”, gli chiede Pinglet.
“Sì, la cosa mi fa in… mi fa in… mi fa in…”
“Mi fa innervosire”, conclude Pinglet.
“No, la cosa mi fa inc… mi fa inc…”
“Oh!”, esclama Pinglet scandalizzato.
“No… no… mi fa incespicare la lingua”.
Forse, voi pensate che questo balbettare sia solo una fantasia da vaudevillista per rendere la scena più divertente. E se si trattasse di un vaudeville di Valabrègue avreste certamente ragione. Ma con Feydeau, potete stare certi che se Mathieu balbetta una ragione specifica c’è. E infatti lo scopriremo nel momento psicologico.
Mathieu non è venuto da solo: ha portato con sé le sue quattro figlie. Di sicuro ora direte: quattro figlie! però! però! mica stupido, l’autore: ha voluto rallegrare la pièce con quattro splendidi visetti.
Suvvia! ora ragionate come se la pièce fosse di Raoul Toché, purtroppo per voi è di Feydeau. E se Feydeau ci mostra quattro ragazzine, è perché in un punto preciso del suo vaudeville avrà assolutamente bisogno di queste quattro ragazzine. Siete avvertiti: in una pièce di Feydeau, un personaggio non può entrare in scena e posare il suo cappello su una sedia senza che io mi dica: Bene! quel cappello non è stato messo là per caso.
Ora mi interromperete dicendo che deve essere molto faticoso seguire un vaudeville in cui ogni avvenimento, anche il più futile, ha una sua importanza. Ebbene, è qui che vi sbagliate! Niente affatto. Ogni singolo dettaglio, senza che voi sappiate come, entra nella vostra mente, vi resta sepolto e torna in superficie giusto nell’istante in cui la situazione esige che ve ne ricordiate.
E il dono del vaudeville è proprio questo. Uno scrittore qualsiasi ripete tre, quattro volte un dettaglio che vuole imprimere nella vostra mente. Voi non ci fate neanche caso. Feydeau, invece, lo indica tutto in una volta, con un gesto rapido e come se niente fosse, e il gioco è fatto; non ve lo scorderete più… Come mai questo sistema funziona? La spiegazione non c’è, poiché è un dono.
La signora Pinglet fa capire al terribile balbuziente che le case di Parigi non sono dei caravanserragli. Egli sarà dunque costretto ad alloggiare in un hotel, ma quale? Eh! ma l’hotel di cui ha inavvertitamente scoperto e ricordato il nome: L’Hotel del Libero Scambio.
Il nipote dei coniugi Pinglet è un collegiale, gran babbeo, che sgobba per superare un esame di filosofia. La cameriera, la signorina Victoire, l’ha subito adocchiato e cerca di smaliziarlo; così, quando l’arcigna signora Pinglet le dice di ricondurre Maurice al liceo quella sera stessa, Victoire salta di gioia: ha già un’idea, anche lei ha letto il volantino.
La signora Pinglet non sospetta nulla di queste atrocità e, prima di andarsene, chiude a doppia mandata il marito lasciandolo in tête à tête con una fettina di filetto fredda e una bottiglia di vino. A quel punto se ne va con il cuore in pace. Appena uscita, Pinglet si organizza per scappare: aggancia alla finestra una scala di corda e fugge.

Scene dal film Hotel Paradiso

Atto secondo

Nel secondo atto, siamo all’Hotel del Libero Scambio. La scena, molto complessa, rappresenta il pianerottolo di un hotel ammobiliato. In fondo, la scala che scende verso il portone d’ingresso e che conduce ai piani superiori. A sinistra, una camera da letto; a destra, una camera ampia (quella abitata dai fantasmi) dove un tempo dormivano tutti i domestici della casa, il che significa che ne era stato fatto un dormitorio. I domestici sono poi fuggiti per colpa dei fantasmi; ora è vuota e i cinque letti sono rimasti inoccupati. Altre camere si affacciano, a mezza costa, sulla scala che porta ai piani superiori.
All’alzarsi del sipario, uno dei due garzoni (Ce ne devono essere due e presto scoprirete il perché. Oh! niente inutilità in una pièce di Feydeau!) sbatte fuori un affittuario dell’hotel che non ha pagato la retta settimanale. L’affittuario, furibondo, gli urla che è un’infamia, che in quell’hotel ne succedono delle belle e che avviserà la polizia. State tranquilli! se parla della polizia è perché ben preso ci sarà bisogno del commissario. Niente inutilità, come vi ho già detto, niente inutilità!
Pinglet arriva assieme alla signora Paillardin; lui, fresco dell’ottima cena che ha appena fatto, lei, tutta tremante. Viene loro assegnata la camera a sinistra. Oh! la bella, splendida scena tipicamente vaudevillesca! Il povero Pinglet è un po’ stordito dal vino che ha bevuto e la novità della situazione gli scombussola lo stomaco:
“Mi sento male”, sospira, “mi sento male”.
E poiché la signora Paillardin si offre di preparargli un tè:
“Mi sento male”, grida, “e mia moglie non è qui”.
Esce, e sale le scale quattro a quattro.
“Che nottata! che nottata!”, si mette a dire la signora Paillardin.
E nel frattempo, Victoire e il collegiale vengono fatti accomodare nella camera a mezza costa, da cui è stato cacciato l’affittuario insolvente. Nella camera a destra, la storia è completamente diversa. Uno dei due garzoni vi ha sistemato il signor Paillardin, l’architetto professionista, che si è coricato nel letto in fondo senza neanche togliersi i vestiti, esclamando, con un sorriso scettico:
“Adesso vedremo se i fantasmi verranno a svegliarmi”.
Chiude le tende e si addormenta.
Mathieu, intanto, che ha smesso di balbettare, arriva accompagnato dalle quattro figlie. Non sanno dove sistemarlo: tutte le camere sono occupate. Il secondo garzone in servizio, non sapendo che la camera abitata dai fantasmi è già stata assegnata all’architetto, la propone a Mathieu. Ci sono due gabinetti da toeletta, dove il padre e le figlie potranno spogliarsi separatamente.
Locandina del film Hotel ParadisoLe quattro figlie si precipitano ridendo nel loro gabinetto. Le vediamo ricomparire poco dopo in camicia da notte. Si sistemano ognuna nel proprio letto e si tolgono le calze cicalando, poi, prima di coricarsi, pensano di arricciarsi i capelli. Ognuna di loro alimenta un fornello a spirito di vino e, battendo le mani, divertendosi per la situazione, cantano scherzosamente: “Monache che riposate sotto questa fredda pietra” (Feydeau fa qui riferimento alla scena dell’evocazione degli spiriti delle monache morte della Grand-opéra in cinque atti Robert le Diable, rappresentata per la prima volta al Teatro dell’Opéra di Parigi il 21 novembre 1831, scritta da Giacomo Meyerbeer (1791-1864) su libretto di Eugène Scribe e Germaine Delavigne. N.d.T.).
L’architetto si sveglia, apre le tende, e lancia un grido di terrore: gli spiriti! “Un uomo!”, gridano a loro volta le ragazzine. Mathieu si precipita dal suo gabinetto da toeletta; l’architetto si dà alla fuga spaventato; nell’istante in cui esce, vede che la porta di fronte è aperta (è la porta della camera in cui sua moglie si sta occupando di Pinglet) e si lancia al suo interno. Pinglet si rifugia nel caminetto; la signora Paillardin si avvolge in un velo e si accartoccia. “Un fantasma!”, grida l’architetto che l’ha presa tra le braccia. In quell’istante, Pinglet, nero di fuliggine, spunta dal caminetto. “Il diavolo!”.
All’udire quei rumori, Victoire e il suo collegiale escono dalla loro camera. Il caos è inesprimibile, finché un garzone accorre spaventato: “La polizia! la polizia!”. La polizia, infatti, sta salendo.
Ah, mio Dio! ci sono stati quei dieci minuti in cui avrei sfidato chiunque a capire quanto stava accadendo. Il pubblico impazziva dalle risate, e non si è mai vista una sala così in visibilio. Comunque, la calma si è parzialmente ristabilita. Il commissario interroga coloro che ha catturato durante la retata. E ovviamente rilascia l’architetto professionista. Ma Pinglet e la signora Paillardin vengono interrogati separatamente; entrambi hanno l’idea di sostenere di essere marito e moglie:
“Sono la signora Pinglet”, afferma la signora Paillardin, credendo che Pinglet abbia fornito il suo vero cognome.
Ma Pinglet, che ha ben pensato di ricorrere allo stesso artificio, ha dichiarato di chiamarsi Paillardin.
“Ne ero certo”, sussurra il commissario, “non sono sposati. Forza! rechiamoci tutti sul posto!”. E l’atto si conclude con un incredibile baccano.
È impossibile raccontare il movimento così fantasioso e allo stesso tempo così matematico che percorre l’intero atto. Le porte che si aprono a ogni istante su persone che si riconoscono e che, nel tentativo di giustificare la loro presenza, si imbarcano in spiegazioni di impensabile comicità. Non si ha nemmeno il tempo di riprendere fiato tanti sono i colpi di scena che si succedono rapidamente; e non ce n’è uno che non trovi corretta giustificazione, che non si possa riconoscere come ammissibile, mettendoci la dovuta condiscendenza che è di rigore in questo tipo di convenzioni; e poi quella frase che ritorna di continuo come un esilarante ritornello: “Che nottata! Mio Dio, che nottata!”.

Atto terzo

Il terzo atto è ambientato a casa di Pinglet.
Pinglet, che era scappato di casa attraverso la finestra, vi fa ritorno facendo il percorso inverso. Nella confusione, ha infatti perso il cappotto con dentro le chiavi. Fortunatamente, sua moglie non è rientrata. Attraverso quale capovolgimento l’astuto Pinglet riuscirà a far credere al commissario, venuto a condurre l’inchiesta, che la signora Pinglet ha dormito all’Hotel del Libero Scambio dimenticando i suoi doveri coniugali con Paillardin non ve lo racconto perché sarebbe troppo lungo da spiegare. Vi basti sapere che la faccenda si ingarbuglia ulteriormente. Solo un uomo potrebbe chiarirvi la questione, perché lui ha visto tutto, in quella notte memorabile: Mathieu.
Quando il personaggio fa il suo ingresso, – al diavolo l’importuno! –, Pinglet, che credeva di averla scampata, trema di paura. Quel diavolo d’un avvocato finirà per scoprire gli altarini perché parla con deplorevole facilità. Ah! se potesse scoppiare un buon temporale! E per l’appunto, inizia a tuonare, con successivo spaventoso acquazzone. Mathieu vuole parlare, ma tutti concludono i suoi discorsi, e lo fanno nel modo sbagliato. Con un gesto esasperato indica colui che egli accusa, e tutti protestano.
“Non riesce a parlare”, insinua il commissario con fare benevolo, “Ma sa scrivere, che scriva allora!”.
Lo conducono a un banco. Mentre è intento a scrivere, la spiegazione continua. È il collegiale che si assume la responsabilità di quest’ultima, e ogni volta che il balbuziente passa un foglio al commissario, Pinglet lo intercetta e lo strappa: “Visto che tutto è spiegato!”, esclama.
Il balbuziente protesta con rabbia, ma il nubifragio è al massimo della sua violenza, la pioggia cade a dirotto, e dalle sue labbra escono solo mozziconi di parole incomprensibili.
Non vi descriverò il pubblico: era distrutto, morto dalle risate, non ce la faceva più. Va da sé che questo riso lascia il tempo che trova; a una risata senza futuro preferisco le emozioni della grande poesia di un dramma storico o le riflessioni suscitate da una commedia di costume. Ma in fondo, siamo al Teatro delle Nouveauté e non ci vuole nulla, come diceva Molière, a scatenare il riso della gente perbene! È davvero così facile? Sarei proprio curioso di vederli, coloro che considerano queste allegre follie collettive semplici sciocchezze e burle di cattivo gusto.